Qualche tempo fa, durante una riunione di redazione per il blog bizzarro.org, mi è stato proposto di scrivere un articolo su Alda Merini. Confesso, con un po’ di imbarazzo, che non sapevo nemmeno chi fosse. Ma la curiosità ha preso il sopravvento e ho accettato la sfida.
Ho cominciato a cercare online, leggendo articoli, interviste e biografie. Più scoprivo, più ne restavo affascinata. Il punto di svolta è arrivato leggendo una frase tratta dalla sua autobiografia La pazza della porta accanto, che mi ha colpita come un pugno allo stomaco:
“Quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita.”
In queste parole ho visto qualcosa che andava oltre il racconto di una vita: ho visto la forza di una donna capace di trasformare il dolore in poesia, la malattia in arte, la fragilità in potenza.
Alda Merini fu internata per diversi anni in manicomio. Un periodo buio, che però ha lasciato un’impronta profonda nella sua produzione poetica. In quegli anni incontrò il neuropsichiatra Enzo Gabricci, figura fondamentale nel suo percorso di rinascita.
Ne parla in due delle sue opere più intime: Diario di una diversa e Lettere al dottor G.. Gabricci la invitò nel suo studio, anche se lei inizialmente non lo ricordava. Accettò. Da quel momento cominciò una terapia fatta di ascolto, attenzione, amore. Fu proprio lui a regalarle una macchina da scrivere, incoraggiandola a ritrovare la sua voce.
“Mi fece una sorpresa: ‘Vedi quella cosa là? È una macchina da scrivere. È per te, per quando avrai voglia di dire le cose tue.’ Io rimasi imbarazzata. Ma lui incalzò: ‘Vai, vai, scrivi.’”
Così Alda Merini ricominciò a scrivere, un passo alla volta, recuperando la sua poesia e la sua identità. In due anni tornò a essere ciò che era sempre stata: una poetessa vera, viva, potente.
Tra le molte poesie che ho letto, una in particolare mi ha colpita profondamente: Desiderio d’amore, dalla raccolta Io dormo sola (Acquaviva, 2005). Parla di un amore impossibile, atteso sulla riva del mare, in silenzio, con i piedi nudi e il cuore pieno di ricordi.
Ecco alcuni versi che mi sono rimasti dentro:
Lei desiderava un sorriso,
una musica muta,
una riva di mare per bagnarsi
il suo amore impossibile.
[…]
Non sapeva che il più grande desiderio
è un niente che s’inventa
stranissime cose,
e vola come un’idea
verso l’enciclopedia del paradiso.
C’è una malinconia struggente in questi versi, ma anche una delicatezza che solo chi ha sofferto davvero sa trasmettere. Il dolore, in Alda Merini, non è mai fine a se stesso: si trasforma in bellezza, in visione, in verità.
Questa ricerca, iniziata per caso, è diventata per me una scoperta preziosa. Ho conosciuto una donna che ha saputo resistere, cadere, rialzarsi e continuare a scrivere anche quando tutto sembrava perduto.
Alda Merini mi ha insegnato che non esiste poesia senza verità. E che spesso la nostra debolezza può diventare la nostra più grande forza. Ha dato voce a ciò che molti non riescono nemmeno a pensare, e lo ha fatto con una grazia che commuove.
Se non la conoscete ancora, vi invito a scoprirla. Perché leggere Alda Merini non è solo leggere una poetessa: è fare un viaggio dentro l’anima, attraversando la follia, la passione, la solitudine e la luce.
L’esperienza di Alda Merini nei manicomi italiani è una ferita ancora aperta nella memoria collettiva. Internata a sua insaputa nel 1965, in un’epoca in cui la donna era ancora legalmente soggetta all’uomo, si ritrovò intrappolata in un sistema violento e disumano, dove la paura veniva anestetizzata con sedativi, elettroshock e umiliazioni quotidiane.
Le sue parole restituiscono l’orrore di un luogo dove si perdevano identità, voce, dignità:
“Il demente era considerato incapace di intendere e di volere. Eppure, sotto la diagnosi serpeggiava quieta la mia anima dolce. Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava sconce canzoni. Ma d’altronde, l’internamento rappresenta già di per sé una violenza enorme per la donna, che perde ogni punto di riferimento e ogni possibilità di essere e riconoscersi come individuo. Ci svegliavano di buon’ora, alle cinque del mattino, e ci allineavano su delle pancacce in uno stanzone orrendo che preludeva alla stanza degli elettroshock: così ben presente potevamo avere la punizione che ci sarebbe toccata non appena avessimo sgarrato. Per tutto il giorno non ci facevano fare nulla, non ci davano né sigarette né cibo al di fuori del pranzo e della cena; e vietato era anche il parlare. I padiglioni erano ben divisi. Gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Le notti, per noi malati, erano particolarmente dolorose […] Eppure, sotto la diagnosi serpeggiava quieta la mia anima dolce, rasserenante, un’anima che non era stata mai tanto luminosa e vitale.”
Alda Merini mi ha insegnato che non esiste poesia senza verità, e che spesso la nostra debolezza può diventare la nostra più grande forza. Ha dato voce a ciò che molti non riescono nemmeno a pensare, e lo ha fatto con una grazia che commuove.
Se non la conoscete ancora, vi invito a scoprirla, perché leggere Alda Merini non è solo leggere una poetessa, è come fare un viaggio dentro l’anima, attraverso la follia, la passione, la solitudine e la luce. È attraversare un dolore che non si nasconde, ma che si trasforma. È incontrare la poesia nel suo significato più puro, come forma di sopravvivenza, come atto di verità.